Emigranti

Sul gelido registro del notturno
asilo trema la tua mano grossa,
tracciando il nome: — Paolo Gibilrossa,
muratore, lombardo. — E taciturno

mi guardi, con quegli occhi così amari
nella faccia di bronzo; e attendi. — Anch’io
scrivo, se vuoi, sotto il tuo nome il mio:
— Ada Negri, poeta. — Ecco. Siam pari.

E questa casa, ch’è d’ognun, — mi senti,
compagno?... —, è nostra. — Hai sonno. Hai freddo. È lunge
la patria. Per l’angoscia che ti punge
più che pel freddo, forse, batti i denti.

La vecchia storia sempre nuova io tutta
leggo nei solchi e solchi che ti scavano
il volto, e nella dura orbita cava
degli occhi, ove ogni luce par distrutta.

Porti, nel sacco a spalla, ogni tuo bene;
ma raccolto sul petto aver vorresti
il tuo bambino, e dargli, se si desti
e pianga, un bacio, e il sangue delle vene!...

In sua culla di legno il bimbo dorme
laggiù, nella casuccia in riva al fiume:
la madre agucchia agucchia sotto il lume,
ma in cuor cammina sulle tue tristi orme.

Pòsati, adesso!... Getta il sacco a terra.
C’è un po’ d’Italia, qui. Spezza il mio pane.
Io parlerò con te delle lontane
messi che splendon sulla nostra terra.

Esule al par di te, che di calcina
t’imbratti a cementar le case altrui,
e pietra a pietra ammucchi in squadra, sui
palchi eretto ore morte è più vicina;

strofa su strofa io costruisco i palchi
eretti contro il ciel, del mio pensiero:
tutte le imbevo del mio sangue nero
perché ben l’una contro l’altra calchi.

E nulla vale a me, nulla a te vale
il paziente sforzo diuturno:
oggi, stranieri, in questo asil notturno:
doman, forse, stranieri, all’ospedale.

Ma poi che nostro fato è andar pel mondo,
tu con la tua cazzuola e col secchiello
di calce, io col pensier che m’è coltello
infisso ove lo spasmo è più profondo:

andare andar, fin che la morte a schianto
ci abbatta colla faccia sulla pietra,
per consolar la tua tristezza tetra
ti tesserò col canto un dolce incanto.

.... Non vedi?... Dalla porta spalancata
entrano, a gruppi, taciti fratelli.
Hanno donne per mano, hanno fardelli
sul dorso, hanno la fronte umiliata.

Dalle basse finestre, anche: dai muri
fenduti a un tratto, e poi richiusi, un dietro
l’altro, irrompono: in quegli occhi di vetro
ti riconosci, ed in quei volti duri.

Tutti di qualche patria esuli figli
sono, e in cuore ne portan crocifisso
il rimpianto; e di notte, a buio fisso,
i lor fardelli sono i lor giacigli.

E tutti vanno e vanno; e dopo giorno
è sera, e dopo notte è l’alba, e lunge
la casa è sempre più: sol la raggiunge
il cuor, che sa la strada del ritorno.

Strada del sogno, strada, ah, così corta
che in un attimo è vinta; ed ecco, il tetto
dei padri spunta, e in esso il benedetto
capo dell’ava che non è ancor morta!...

Tu, che firmasti Paolo Gibilrossa
da Lombardia — fratello in Cristo —: noi
il nostro pane romperem, se vuoi,
con questa gente squallida e commossa.

Poco, tu dici?... Guarda: amor lo spezza
in cento parti e cento; e il bianco sale
vi asperge, e l’acqua versa nel boccale
che a cento bocche dà la sua freschezza.

Nella pace dell’agape fraterna
ritroverem la patria; e nell’amore
che il tuo pallor fa uguale al mio pallore,
celebrerem la sua bellezza eterna.

Poscia, ravvolto nel mantello, al suolo
con essi, in fascio, dormirai. — Non io. —
Io poeta, a colloquio col mio Dio
sol visibile a me, veglierò solo:

chinata in atto d’umiltà la macra
faccia verso i dormenti, infin che sgombra
l’alba apparisca, reggerò nell’ombra
sul lor riposo la mia torcia sacra.

Tratta dalla raccolta: 
Esilio
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20